Il Welfare nel Biellese. Assistenza, servizi e solidarietà dal Medioevo al XX secolo
- Il Welfare nel Biellese. Assistenza, servizi e solidarietà dal Medioevo al XX secolo
- Il welfare a Sordevolo
- Ambrosetti e Vercellone, benefattori sordevolesi
- Dal 1883 i Vercellone assicurano per gli infortuni sul lavoro
- Una sottoscrizione per le vittime di un incendio
- I libretti di risparmio postale agli operai di Sordevolo
- Serafino Vercellone e il sostegno alla Scuola Professionale
- I Vercellone e le SOMS di Sordevolo
- Il welfare a Sordevolo
- I documenti del welfare negli archivi del DocBi
- La Cooperativa di Trivero Fila e Giardino
- Filantropia ad ampio raggio dell’Unione Industriale Biellese
- Una biblioteca e una scuola professionale: il welfare secondo i Giletti di Ponzone
- Manifattura Lane di Borgosesia: l’assistenza ai lavoratori
- L’Ospizio degli Esposti di Biella: un archivio di solidarietà all’infanzia
- Welfare a Coggiola: il caso del Lanificio Fila
- Il Santuario di Oropa: accoglienza e beneficenza
- La filantropia di Alfonso La Marmora
- Maria Luisa Ferrero della Marmora e le artiere del Piazzo
- Camera del Lavoro di Biella: welfare non solo nel Biellese
- La FAO, il riso e la Camera di Commercio di Vercelli
- Welfare culturale: la Biblioteca Civica di Biella secondo Quintino Sella
- La Scuola Statale di Avviamento Professionale di Trivero: un esempio di welfare “misto”
Quintino Sella, in un suo “scritto inedito” pubblicato sul giornale “Risveglio” dell’8 dicembre 1903, rammentava l’origine della propensione di Alfonso La Marmora alla filantropia e alla beneficenza, soprattutto nei confronti dei lavoratori. Il Sella scrisse: “Mi ricordava non so quante volte che alla Veneria, mentre egli era sottotenente d’artiglieria, due muratori biellesi erano caduti da un palco di una casa in costruzione che egli aveva provvisto all’occorrente mentre nessuno ci pensava. E soggiungeva che niun caso era più degno di soccorso come questo di un operaio che si fa male non per caso qualunque, non per colpa di ubriachezza, ma perché attende ad un lavoro pericoloso”. Il giovane ufficiale fu coerente con quella sua prima esperienza e l’attenzione per i problemi dell’assistenza per gli indigenti si mantenne costante sino alla morte.
Nel 1850 Alfonso La Marmora si interessò degli emigrati italiani elargendo alcune somme per soccorrerli nelle loro difficoltà. Più tardi Torino, Venaria Reale, Firenze e, soprattutto, il “suo” Biellese ebbero modo di godere della sua generosità “mirata” (per fare il bene bisogna saper “farlo bene” come voleva la filosofia “del sociale” di scuola illuminista che ispirò anche altri filantropi biellesi dell’Ottocento, come il vescovo mons. Giovanni Pietro Losana). A Torino l’Ospedale Cottolengo, l’Ospedale Maggiore di San Giovanni Battista e l’Ospedale Oftalmico Infantile e, a Biella, l’Ospedale degli Infermi ricevettero cospicue donazioni quando, negli ultimi anni di vita, Alfonso La Marmora e le cognate intesero onorare la memoria di Giovanna Bertie Mathew, la moglie del generale morta nel 1876, disponendo a fin di bene delle sue considerevoli sostanze. Nello stesso periodo anche le istituzioni benefiche Pavesio e Trucchi di Venaria Reale, il Ricovero di Mendicità di Torino e le opere di don Bosco poterono contare sulla liberalità del benefattore.
Nel Biellese, oltre alla Congregazione di Carità nel cui seno si sviluppò la Fondazione La Marmora, la società per gli Ospizi Marini di Biella per la cura degli scrofolosi, la Scuola Professionale avviata da Quintino Sella nel 1869 e il liceo “pareggiato” cittadino ringraziarono per le donazioni ricevute dal La Marmora, che nel suo testamento si ricordò anche della Pia Casa di Lavoro di Firenze cui assegnò l’usufrutto della magione fiorentina in cui morì. Anche il Piazzo, il quartiere che domina Biella e dove sorge il palazzo di famiglia, fu oggetto di attenzione da parte del suo più illustre abitante: Alfonso La Marmora volle destinare parte dei suoi averi per la realizzazione dell’acquedotto e di un mercato coperto. Infine, nel testamento, il generale volle contribuire all’opera di restauro del sepolcro avito, ovvero la basilica di San Sebastiano. L’onerosa ristrutturazione della facciata della chiesa fu possibile solo grazie al lascito di Alfonso La Marmora che ormai da alcuni anni vi aveva trovato sepoltura.