Il Welfare nel Biellese. Assistenza, servizi e solidarietà dal Medioevo al XX secolo
- Il Welfare nel Biellese. Assistenza, servizi e solidarietà dal Medioevo al XX secolo
- Il welfare a Sordevolo
- Ambrosetti e Vercellone, benefattori sordevolesi
- Dal 1883 i Vercellone assicurano per gli infortuni sul lavoro
- Una sottoscrizione per le vittime di un incendio
- I libretti di risparmio postale agli operai di Sordevolo
- Serafino Vercellone e il sostegno alla Scuola Professionale
- I Vercellone e le SOMS di Sordevolo
- Il welfare a Sordevolo
- I documenti del welfare negli archivi del DocBi
- La Cooperativa di Trivero Fila e Giardino
- Filantropia ad ampio raggio dell’Unione Industriale Biellese
- Una biblioteca e una scuola professionale: il welfare secondo i Giletti di Ponzone
- Manifattura Lane di Borgosesia: l’assistenza ai lavoratori
- L’Ospizio degli Esposti di Biella: un archivio di solidarietà all’infanzia
- Welfare a Coggiola: il caso del Lanificio Fila
- Il Santuario di Oropa: accoglienza e beneficenza
- La filantropia di Alfonso La Marmora
- Maria Luisa Ferrero della Marmora e le artiere del Piazzo
- Camera del Lavoro di Biella: welfare non solo nel Biellese
- La FAO, il riso e la Camera di Commercio di Vercelli
- Welfare culturale: la Biblioteca Civica di Biella secondo Quintino Sella
- La Scuola Statale di Avviamento Professionale di Trivero: un esempio di welfare “misto”
[da “Eco di Biella” del 25 marzo 2024]
La parola welfare, cioè fare well (stare, anzi letteralmente “passarsela” bene), indica il benessere, la felicità. Il welfare non è il wellness, ossia il benessere psico-fisico individuale, ma la felicità collettiva e sociale. Il sovrano illuminato dell’evo moderno governava e regnava, almeno sulla carta, per assicurare quella felicità ai suoi sudditi. L’accezione dello “Stato sociale”, ovvero del Welfare State, è maturata solo all’inizio del Novecento e riguarda, virtuosamente, “l’insieme delle politiche sociali che proteggono i cittadini dai rischi e li assistono nei bisogni legati alle condizioni di vita e sociali” (la definizione, piuttosto efficace, è di Wikipedia mutuata dalla Treccani). La Rete Archivi Biellesi, per la settima edizione del Progetto TSB Tessuto Storico Biellese, intende analizzare la fenomenologia del welfare per come si è manifestato sul nostro territorio dal Medioevo al Novecento, in termini di assistenza, servizi e solidarietà. Giovedì 28 marzo 2024, dalle 10.00 alle 12.00, presso il Museo del Territorio Biellese (ingresso libero) sono stati presentati i risultati delle ricerche, in attesa degli eventi in programma per l’estate, tra Archivissima (7 giugno) e la mostra che sarà allestita presso la Fabbrica della Ruota a partire dal 16 giugno.
La scena è quanto mai esplicita. L’uomo dinoccolato ed elegante è Alfonso Ferrero della Marmora. Esce dal portone del palazzo, scende la scala ai piedi della quale lo attende un cagnone. Mentre percorre la breve scalinata compie un gesto semplice, ma dal profondo significato: fa la carità a una anziana donna che, dalla posizione inferiore della sua evidente indigenza, chiede la carità. Attorno alla mendicante si scorgono due madri con i rispettivi figli. Una quinta figura completa il quadro: un vecchio storpio con la gruccia e il cappello in mano, quasi appoggiato – anche questo è significativo – allo stemma araldico dell’illustre casata. Più che sulla stampella, il povero può contare sul sostegno dei nobili (di sangue, ma più ancora d’animo). L’immagine è fusa nel bronzo del pannello posteriore del basamento del monumento dedicato al grande soldato e politico italiano del Risorgimento eretto a sua memoria nei giardini pubblici di Biella. Si tratta di una rappresentazione con i tratti ben marcati del paternalismo e quella mano che porge lo spicciolo all’altra, oggi, appare molto più retorica e persino urtante, che filantropica. Tuttavia, quello era il linguaggio giusto per quei tempi per rammentare che Alfonso Ferrero della Marmora si era interessato alla sorte degli operai invalidi di Biella e circondario costituendo una fondazione finalizzata a dare agli sfortunati lavoratori un qualche ausilio. Per noi, adesso, quello è il bene detto male. La nostra sensibilità, maturata nel secolo e mezzo che ci separa da quella raffigurazione, è ormai lontana da quella beneficenza fatta con fin troppa disinvoltura da parte di chi aveva tanto e dava poco a chi aveva nulla. Ma che ci piaccia o no, quello era il welfare, e così com’è inscenato dal rilievo di Odoardo Tabacchi era stato per i secoli precedenti e tale sarebbe rimasto per alcuni decenni a venire. Quello non era lo “Stato sociale”, ma era lo stato delle cose. Una corretta riflessione sul welfare nel Biellese non può non tener conto che l’assistenza, i servizi e la solidarietà sono stati, fino alla metà dell’Ottocento (e anche oltre), un fenomeno “fisico”, regolato dalla forza di gravità: il peso fa scendere il denaro. Dall’alto della scala sociale, qualcuno, benemerito più di altri, si abbassava (senza piegare la schiena) fino far incontrare la carità con l’elemosina.
Delle tre virtù teologali, mentre Fede e Speranza attengono al cielo e allo spirito, la Carità è quella che riguarda la terra e la materia. Eppure, per quanto si possa biasimare quell’atteggiamento, che non era individuale, ma di classe, non è corretto applicare retroattivamente un giudizio più ideologico che storiografico. Altrimenti si rischia di perdere di vista il valore effettivo di quello stesso gesto, che era la forma (che ci risulta non elegante), ma non la sostanza. Soprattutto in una zona come il Biellese che, malgrado tutte le contraddizioni e le criticità dovute alle epoche e agli uomini di quelle epoche, può vantare un welfare invidiabile. Un welfare spontaneo, agito per carità cristiana e/o come detersivo per coscienze sporche, ma comunque agito. Non sempre, non ovunque fu così. Ma anche un welfare strutturale in una società civile che, dal suo interno o dall’esterno, ha ricevuto le istanze giuste per attivare sistemi di assistenza che si sono occupati, con tutti i limiti immaginabili, di ammalati (Ospedale degli Infermi e dei Pellegrini), bambini abbandonati (Ospedale Maggiore, poi Ospizio degli Esposti), gioventù in difficoltà (Albergo di Virtù del Santuario di Oropa, Ospizio di Carità del Vernato e Orfanotrofio “Ravetti” per le orfane), mendicanti (Ricovero di Mendicità “Belletti Bona”), portatori di handicap (Ospedaletto dei cronici “Cottolengo”) ecc. Molti degli enti benefici attivi in città e, in misura minore, nella piana e nelle valli, avevano origini antiche. Quando fu istituita la Congregazione di Carità, con giurisdizione provinciale, all’inizio del XVIII secolo, era già attiva da almeno tre/quattrocento anni la Confraria del Santo Spirito che, in qualche modo, si prendeva cura degli ultimi. Nel Medioevo e nel Cinque-Seicento erano proprio le compagnie e le confraternite a dispensare un welfare non tanto di servizio, quanto di soccorso. In quel consesso umano il welfare non era maturo per tessere una società migliore, ma solo per rammendare quella che c’era affinché non diventasse peggiore. Solo nell’Ottocento si arrivò a immaginare la beneficenza come motore del progresso civile costruendo lentamente un meccanismo di scolarità e di sussidio che si muoveva da, con e per le fabbriche del nuovo Biellese industriale. Il welfare assunse anche la statura della coscienza di classe, quando i lavoratori capirono che dovevano e potevano aiutarsi da soli. Le società di mutuo soccorso, le cooperative e, più tardi, le organizzazioni sindacali ereditarono, in parte, le funzioni laiche delle compagnie e delle confraternite ponendosi anche come luogo di incontro tra operai e borghesia imprenditoriale e professionale (meno potente dei grandi capitali e dei poteri forti sopravvissuti all’Ancien Régime, ma comunque in grado di apportare il suo contributo). E, mentre le aziende si attrezzavano, volenti o nolenti, per dare ai propri dipendenti un welfare ormai non più derogabile (pena la totale emigrazione verso impieghi e salari più convenienti) fatto di “benessere” formato villaggio operaio e/o affini, la Chiesa produceva un suo welfare anche in quel Biellese postunitario liberale e massone, grazie soprattutto a uomini come il vescovo Losana che, tra i primi, sperimentò una maggiore specializzazione nella filantropia. Tutte le colonie marine e montane frequentate dai bimbi biellesi fino a ieri l’altro sono “figlie” della prima colonia attivata a Sestri Levante nel 1872 per i piccoli scrofolosi.
Tra Otto e Novecento la mentalità mutò e i privilegi di un passato per niente remoto cominciarono a evolvere nei diritti di tutti, o quasi. L’idroterapia di Oropa era per i signori, ma anche, in apposita struttura (più spartana del Grand Hotel Oropa Bagni…), per i pazienti bisognosi di cure, ma impossibilitati a pagarle. Nei primi decenni del secolo scorso, complici anche le spinte populiste del regime fascista, le più ampie disponibilità economiche dell’affermata industria laniera e cotoniera unite alla acquisita consapevolezza della necessità di “andare verso il popolo”, aprirono una stagione di interventi mirati al potenziamento di strutture già in esercizio (come l’Ospedale degli Infermi di Biella, che fu dotato di padiglioni e di reparti per terapie particolari) o alla fondazione di nuove, anche tramite riqualificazione di volumetrie esistenti (vedasi villa Balduino a Bioglio come sanatorio antitubercolare). A quel punto lo Stato si è fatto “sociale”. La Repubblica Italiana non dovette, non poté e non volle fare a meno di quegli organismi di assistenza, previdenza e provvidenza cui il Fascismo aveva dato o un’organizzazione nazionale o maggior vigore o di fatto la vita (a volte, però, solo cambiando la denominazione a realtà già funzionanti, come nel caso delle congregazioni di carità comunali che divengono enti comunali di assistenza). La nostra Costituzione sancisce il welfare come connaturato al vivere degli italiani. Lo Stato o è Welfare State, o non è. Ma bisogni e necessità non si possono “sbandire” per legge, come si intese fare sotto Vittorio Amedeo II appena nato il Regno di Sardegna. Il welfare locale, per fortuna, non è scomparso. Ha mantenuto, efficacemente, le modalità arcaiche o ne ha proposte di nuove, anche se nuove solo in superficie. L’odierno Fondo Edo Tempia si occupa di tumori come i frati antoniani medievali si occupavano dell’herpes zoster. Il Centro Assistenziale di Trivero (con tutti i suoi servizi, inclusa una scuola di avviamento al lavoro), voluto da Ermenegildo Zegna, ha cambiato l’assetto sociale di un territorio ma, in prospettiva storica, non costituisce una novità, se non per il suo significativo decentramento. Resta da verificare la capacità del Biellese di accettare le sfide del welfare di domani. Per combattere servono le armi dell’inclusione della diversità, del recupero di visioni disinteressate e dell’ampiezza degli orizzonti, questa sì inedita, perché la globalizzazione moderna ha reso la scena della carità di Alfonso Ferrero della Marmora molto più estesa. Oggi, il mendicante sotto casa è dall’altra parte del mondo, perché tutto il mondo, ormai, è “sotto casa”.